Il Ponte del Gatto (Ponte di viale Cecchini)
Il Ponte del Gatto (Ponte di viale Cecchini)
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Il Ponte del Gatto (Ponte di viale Cecchini)
Trascrizione traccia audio
“Duv’andasì?”, chiedeva la mamma quando mi vedeva uscire insieme a Marco.
Di quando ero ragazzino, ricordo soprattutto le giornate che io e lui vivevamo di nascosto. Una vita segreta solo nella nostra immaginazione, perché tutti sapevano cosa facevamo.
D’inverno, Marco ed io partivamo da Boschetto, in due sulla stessa bici, una vecchia Graziella arrugginita. Nascondevamo le canne da pesca e andavamo vicino al Gambero Rosso, sul molo di Levante, dall’altra parte dei capanni. Lì passavamo il tempo a pescare i paganelli, anche se era vietato.
Però per pescare ci vuole la “pastura” e noi non avevamo soldi, eravamo solo dei ragazzini; allora andavamo in pescheria, che ai tempi aveva ancora i banconi di marmo, e le pescivendole ci davano i tentacoli intrecciati delle seppie, che usavamo come esca.
Come tiri giù l’amo, tiri su un paganello. Questo pesce abbocca con qualsiasi tipo di esca, da qui il detto “Ci propri un paganel”, che significa “Sei proprio un credulone, abbocchi a tutto”.
Riempivamo d’acqua un secchio di latta e ci mettevamo i pesci fino a quando era colmo, poi li ributtavamo in mare. Non potevamo portarli a casa, perché avrebbero capito che eravamo andati a pescare. Era il nostro passatempo.
Quando nel pomeriggio tornavano i pescherecci, noi ragazzini urlavamo “Pesce! Pesce!”, e i marinai ce ne buttavano qualcuno che noi vendevamo per qualche soldo, perché neanche quelli potevamo portarli a casa.
D’estate, il bagno!
Marco ed io uscivamo, inseguiti dalle raccomandazioni del mio babbo e della sua mamma. Andavamo sempre in due, sulla stessa bicicletta, che legavamo alla scaletta del canale con una fune abbastanza lunga da permetterci di prendere una bella rincorsa, pedalavamo veloci e ci buttavamo in acqua, raccogliendo le gambe per non toccare il fondo e rimanere impantanati. Poi recuperavamo la bici con la corda. Si faceva la gara a chi arrivava più lontano. Era pericoloso anche perché i pescherecci passavano di continuo. I turisti ci fotografavano, ma all’arrivo dei carabinieri bisognava scappare tutti inzuppati; a volte, per non farci prendere, dovevamo lasciare la bici in acqua.
Poi, quando ero poco più di un ragazzino, la mia vita è cambiata. A quell’epoca, a 14 anni si andava tutti a lavorare d’estate. Io ho iniziato come cameriere, mentre d’inverno frequentavo la scuola alberghiera a Milano Marittima. Quando ho incominciato a fare il cuoco, facevo anche la stagione invernale in montagna: Cervinia, Montreux…
I cuochi si spostano in continuazione. Poi mi sono fermato a Imola, dove ho trovato un lavoro fisso.
Ogni volta che tornavo a Cesenatico, la prima cosa che facevo era venire qui, sul ponte del Gatto, all’una di notte, appena arrivato, o la mattina all’alba, per vedere il porto canale.
La città era mia a quell’ora.
Non ci venivo più in compagnia, volevo stare da solo. L’altro non cerca il momento che cerchi tu.
Nel periodo natalizio, era bellissimo trovare il presepe sulle barche, tutte illuminate.
Il mare parla, l’acqua ha un suo linguaggio, bisogna saperlo e volerlo ascoltare.
È difficile staccarsi da Cesenatico.
Sono tornato a viverci solo quando mi sono sposato, a 36 anni, per gestire l’albergo avviato dai miei suoceri.
D’inverno, adesso, vengo a camminare sul canale quando c’è la nebbia che arriva dal mare.
A Villamarina, dove vivo, apro la finestra e fin da lì sento il suono del “fischione”, che segnala alle barche l’ingresso del porto.
Quando sei insieme a un’altra persona, non navighi con la mente.
Per questo mi piace camminare da solo lungo il canale, con l’umidità che mi penetra, e sembra di essere in un altro mondo.
Audio Track transcription
“Duv’andasì?”, chiedeva la mamma quando mi vedeva uscire insieme a Marco.
Di quando ero ragazzino, ricordo soprattutto le giornate che io e lui vivevamo di nascosto. Una vita segreta solo nella nostra immaginazione, perché tutti sapevano cosa facevamo.
D’inverno, Marco ed io partivamo da Boschetto, in due sulla stessa bici, una vecchia Graziella arrugginita. Nascondevamo le canne da pesca e andavamo vicino al Gambero Rosso, sul molo di Levante, dall’altra parte dei capanni. Lì passavamo il tempo a pescare i paganelli, anche se era vietato.
Però per pescare ci vuole la “pastura” e noi non avevamo soldi, eravamo solo dei ragazzini; allora andavamo in pescheria, che ai tempi aveva ancora i banconi di marmo, e le pescivendole ci davano i tentacoli intrecciati delle seppie, che usavamo come esca.
Come tiri giù l’amo, tiri su un paganello. Questo pesce abbocca con qualsiasi tipo di esca, da qui il detto “Ci propri un paganel”, che significa “Sei proprio un credulone, abbocchi a tutto”.
Riempivamo d’acqua un secchio di latta e ci mettevamo i pesci fino a quando era colmo, poi li ributtavamo in mare. Non potevamo portarli a casa, perché avrebbero capito che eravamo andati a pescare. Era il nostro passatempo.
Quando nel pomeriggio tornavano i pescherecci, noi ragazzini urlavamo “Pesce! Pesce!”, e i marinai ce ne buttavano qualcuno che noi vendevamo per qualche soldo, perché neanche quelli potevamo portarli a casa.
D’estate, il bagno!
Marco ed io uscivamo, inseguiti dalle raccomandazioni del mio babbo e della sua mamma. Andavamo sempre in due, sulla stessa bicicletta, che legavamo alla scaletta del canale con una fune abbastanza lunga da permetterci di prendere una bella rincorsa, pedalavamo veloci e ci buttavamo in acqua, raccogliendo le gambe per non toccare il fondo e rimanere impantanati. Poi recuperavamo la bici con la corda. Si faceva la gara a chi arrivava più lontano. Era pericoloso anche perché i pescherecci passavano di continuo. I turisti ci fotografavano, ma all’arrivo dei carabinieri bisognava scappare tutti inzuppati; a volte, per non farci prendere, dovevamo lasciare la bici in acqua.
Poi, quando ero poco più di un ragazzino, la mia vita è cambiata. A quell’epoca, a 14 anni si andava tutti a lavorare d’estate. Io ho iniziato come cameriere, mentre d’inverno frequentavo la scuola alberghiera a Milano Marittima. Quando ho incominciato a fare il cuoco, facevo anche la stagione invernale in montagna: Cervinia, Montreux…
I cuochi si spostano in continuazione. Poi mi sono fermato a Imola, dove ho trovato un lavoro fisso.
Ogni volta che tornavo a Cesenatico, la prima cosa che facevo era venire qui, sul ponte del Gatto, all’una di notte, appena arrivato, o la mattina all’alba, per vedere il porto canale.
La città era mia a quell’ora.
Non ci venivo più in compagnia, volevo stare da solo. L’altro non cerca il momento che cerchi tu.
Nel periodo natalizio, era bellissimo trovare il presepe sulle barche, tutte illuminate.
Il mare parla, l’acqua ha un suo linguaggio, bisogna saperlo e volerlo ascoltare.
È difficile staccarsi da Cesenatico.
Sono tornato a viverci solo quando mi sono sposato, a 36 anni, per gestire l’albergo avviato dai miei suoceri.
D’inverno, adesso, vengo a camminare sul canale quando c’è la nebbia che arriva dal mare.
A Villamarina, dove vivo, apro la finestra e fin da lì sento il suono del “fischione”, che segnala alle barche l’ingresso del porto.
Quando sei insieme a un’altra persona, non navighi con la mente.
Per questo mi piace camminare da solo lungo il canale, con l’umidità che mi penetra, e sembra di essere in un altro mondo.
Audiotrack-Text
“Duv’andasì?”, chiedeva la mamma quando mi vedeva uscire insieme a Marco.
Di quando ero ragazzino, ricordo soprattutto le giornate che io e lui vivevamo di nascosto. Una vita segreta solo nella nostra immaginazione, perché tutti sapevano cosa facevamo.
D’inverno, Marco ed io partivamo da Boschetto, in due sulla stessa bici, una vecchia Graziella arrugginita. Nascondevamo le canne da pesca e andavamo vicino al Gambero Rosso, sul molo di Levante, dall’altra parte dei capanni. Lì passavamo il tempo a pescare i paganelli, anche se era vietato.
Però per pescare ci vuole la “pastura” e noi non avevamo soldi, eravamo solo dei ragazzini; allora andavamo in pescheria, che ai tempi aveva ancora i banconi di marmo, e le pescivendole ci davano i tentacoli intrecciati delle seppie, che usavamo come esca.
Come tiri giù l’amo, tiri su un paganello. Questo pesce abbocca con qualsiasi tipo di esca, da qui il detto “Ci propri un paganel”, che significa “Sei proprio un credulone, abbocchi a tutto”.
Riempivamo d’acqua un secchio di latta e ci mettevamo i pesci fino a quando era colmo, poi li ributtavamo in mare. Non potevamo portarli a casa, perché avrebbero capito che eravamo andati a pescare. Era il nostro passatempo.
Quando nel pomeriggio tornavano i pescherecci, noi ragazzini urlavamo “Pesce! Pesce!”, e i marinai ce ne buttavano qualcuno che noi vendevamo per qualche soldo, perché neanche quelli potevamo portarli a casa.
D’estate, il bagno!
Marco ed io uscivamo, inseguiti dalle raccomandazioni del mio babbo e della sua mamma. Andavamo sempre in due, sulla stessa bicicletta, che legavamo alla scaletta del canale con una fune abbastanza lunga da permetterci di prendere una bella rincorsa, pedalavamo veloci e ci buttavamo in acqua, raccogliendo le gambe per non toccare il fondo e rimanere impantanati. Poi recuperavamo la bici con la corda. Si faceva la gara a chi arrivava più lontano. Era pericoloso anche perché i pescherecci passavano di continuo. I turisti ci fotografavano, ma all’arrivo dei carabinieri bisognava scappare tutti inzuppati; a volte, per non farci prendere, dovevamo lasciare la bici in acqua.
Poi, quando ero poco più di un ragazzino, la mia vita è cambiata. A quell’epoca, a 14 anni si andava tutti a lavorare d’estate. Io ho iniziato come cameriere, mentre d’inverno frequentavo la scuola alberghiera a Milano Marittima. Quando ho incominciato a fare il cuoco, facevo anche la stagione invernale in montagna: Cervinia, Montreux…
I cuochi si spostano in continuazione. Poi mi sono fermato a Imola, dove ho trovato un lavoro fisso.
Ogni volta che tornavo a Cesenatico, la prima cosa che facevo era venire qui, sul ponte del Gatto, all’una di notte, appena arrivato, o la mattina all’alba, per vedere il porto canale.
La città era mia a quell’ora.
Non ci venivo più in compagnia, volevo stare da solo. L’altro non cerca il momento che cerchi tu.
Nel periodo natalizio, era bellissimo trovare il presepe sulle barche, tutte illuminate.
Il mare parla, l’acqua ha un suo linguaggio, bisogna saperlo e volerlo ascoltare.
È difficile staccarsi da Cesenatico.
Sono tornato a viverci solo quando mi sono sposato, a 36 anni, per gestire l’albergo avviato dai miei suoceri.
D’inverno, adesso, vengo a camminare sul canale quando c’è la nebbia che arriva dal mare.
A Villamarina, dove vivo, apro la finestra e fin da lì sento il suono del “fischione”, che segnala alle barche l’ingresso del porto.
Quando sei insieme a un’altra persona, non navighi con la mente.
Per questo mi piace camminare da solo lungo il canale, con l’umidità che mi penetra, e sembra di essere in un altro mondo.