Via Squero

Cesenatico

Sessant’anni fa, la maggior parte dei pescatori di Cesenatico viveva qui a ponente, in Via Squero. Questa era la zona più povera della città, la Valona; le osterie proponevano solo pesce, che all’epoca era considerato cibo povero, mentre nelle trattorie al di là del canale, a levante, si consumavano i prodotti dell’entroterra e i menù […]

Cesenatico

Via Squero

Sessant’anni fa, la maggior parte dei pescatori di Cesenatico viveva qui a ponente, in Via Squero. Questa era la zona più povera della città, la Valona; le osterie proponevano solo pesce, che all’epoca era considerato cibo povero, mentre nelle trattorie al di là del canale, a levante, si consumavano i prodotti dell’entroterra e i menù […]

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Via Squero

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Sessant’anni fa, la maggior parte dei pescatori di Cesenatico viveva qui a ponente, in Via Squero.
Questa era la zona più povera della città, la Valona; le osterie proponevano solo pesce, che all’epoca era considerato cibo povero, mentre nelle trattorie al di là del canale, a levante, si consumavano i prodotti dell’entroterra e i menù erano a base di carne.
Quando ero piccolo, Via Squero assomigliava un po’ ai Quartieri Spagnoli di Napoli; ricordo le scenate, le urla dalle finestre, i bambini che giocavano, il bucato steso ad asciugare al vento. Oggi mi chiedo dove siano i bambini, non ne vedo più. Noi eravamo in venti, anche in trenta, la strada era piena dei nostri giochi e dei nostri schiamazzi.
E poi, alla sera, le donne portavano le loro sedie in strada e chiacchieravano fino a tardi.

Già nel suo nome, Via Squero ci indica la direzione in cui andare: verso il mare.
Incamminiamoci!
Se ora alzate lo sguardo scorgete le bandierine a forma di vela appese ai lampioni.
Su ognuna sono riprodotti i colori e le forme che permettevano di riconoscere il peschereccio, ma soprattutto si leggono i soprannomi delle famiglie di pescatori che possedevano una barca: Gambèla, E Sèndich, Nacc, Bastcianèl… Non conosco l’origine di tutti, ma di alcuni sì: ad esempio Scimiàza, un uomo sempre in vena di fare scherzi a tutti, come una scimmia dispettosa.
Negli anni Sessanta e Settanta la maggior parte dei pescherecci praticava la pesca volante, per la cattura del pesce azzurro. Dalle quattro del mattino la via iniziava a brulicare di vita: i pescatori uscivano dalle loro case già vestiti da mare, alcuni con gli zoccoli, perché gli stivali erano già sulla barca; nei mesi freddi indossavano gli “scarfaròt”, dei calzettoni di lana talmente spessi che ci potevi camminare per terra; tenevano i piedi caldi, ma comodi non erano.

“Vin cun me burdlaz, ch’andèm a fè la spàisa!”, gridava il cuoco al mozzo. Qui, al numero 29 di Via Squero, all’angolo con Via Semprini, c’era una bottega dove si andava a fare scorta di vettovaglie per l’equipaggio. Ogni negozio di generi alimentari aveva un librettino intestato alla barca dove erano segnate meticolosamente le spese, che venivano saldate a fine mese.

Un po’ più avanti, al numero 37, viveva il mio primo comandante, soprannominato “il Generale”: abitando in una casa poco distante dalla mia, sulla via del mare passava sempre da me a controllare che fossi già in piedi. Era un uomo rude, ma del resto tra di noi non c’era bisogno di tante parole: i pescatori hanno un gergo con cui ci si comprende subito.
Poi, nel corso degli anni, il nostro rapporto si è fatto sempre più stretto, i racconti sempre più personali. Le sue storie erano quasi sempre di mare, ti restavano tutte dentro.

Ed eccoci davanti a Via Squero 55: questa è casa mia!
Mio nonno era pescatore, mio padre no: quando mia nonna morì di parto dandolo alla luce, si fece promettere dal marito che non avrebbe lasciato andare il figlio in mare. La richiesta della nonna era comprensibile, perché in quegli anni la vita del pescatore era pericolosa: un tempo si andava solo a vela, e quindi si era alla mercé del vento, nella tempesta come nella bonaccia; poi c’erano le nebbie, le collisioni con le altre imbarcazioni, e dopo il 1945 si aggiunse un’ulteriore minaccia: il mare era pieno di mine disseminate dai tedeschi durante la guerra, e qualcuno ci saltava sopra.
La vita del pescatore era anche magra; si portava a casa giusto il necessario per mangiare, c’era la miseria. La pesca ha iniziato a diventare remunerativa solo agli inizi degli anni Settanta, grazie ai motori sempre più potenti e alle innovazioni nelle tecniche di pesca.
Quello è stato il periodo in cui io e molti miei coetanei abbiamo iniziato ad andare in mare.
La promessa del nonno alla moglie in punto di morte, mio padre me l’ha raccontata che ero già grande.

Quando ero bambino non gli piaceva che andassi a giocare con i figli dei pescatori, forse temeva che prima o poi anch’io, come lui, subissi il fascino di quel mondo, ma mio fratello ed io giocavamo sempre con loro.

Le sortite sui pescherecci, le rincorse tra i magazzini del pesce, i bagni nel canale…
A volte la notte ci svegliavamo e uscivamo di nascosto per andare alla tonnara. Quelle fughe notturne avevano qualcosa di fiabesco, ci stendevamo sulle reti e guardavamo il cielo stellato.
Aver vissuto la mia infanzia in questi luoghi ha sicuramente contribuito a farmi prendere la strada del mare, ma la folgorazione l’ho avuta leggendo “Capitani coraggiosi” di Kipling, e soprattutto guardando il film con Spencer Tracy.

Pochi passi dopo casa mia, a destra, si trovava il piccolo squero.
Dove ora c’è l’acqua, c’era la sabbia per tirare le barchette in secco; più avanti a sinistra c’era il cantiere Marconi, dove si costruivano e riparavano le barche più grandi. Oggi tutti i lavori di cantieraggio si fanno alla darsena, andando oltre Via Squero verso il porto.

All’angolo con lo squero c’era il Bar dei Marinai, con un’ampia tettoia e i tavoli fuori. Quando non si poteva uscire in mare, i pescatori non andavano a casa, venivano qui. Se il tempo era incerto, ai più giovani dicevano “Vai in cuccetta”, un modo per dirti “Tieniti pronto”, ma spesso finivamo per arrivare qui anche noi, ci piaceva ascoltare le discussioni dei pescatori più anziani, ne veniva fuori di ogni: a volte si trattava di precedenze non date in navigazione, o su chi avesse avvistato per primo un branco di pesce, e in alcuni casi nasceva anche qualche baruffa; c’era chi raccontava il suo naufragio, chi uno scherzo fatto a un collega; spesso i comandanti parlavano della pescata del giorno precedente, omettendo naturalmente molti dettagli, per non far sapere dove realmente avessero trovato il pesce.

Accanto a quello che un tempo era il Bar dei Marinai, oggi c’è ancora La Lampara; è stato a lungo il locale più in voga di Cesenatico, apparteneva a uno zio di mio padre e tante volte, quando avevo appena 4 o 5 anni, mi ci hanno fatto cantare, in piedi sui tavoli. Io da piccolo ero timidissimo, ma quando mi esibivo mi trasformavo in un’altra persona. Qui è nato il mio amore per il canto.

E infine, proprio davanti allo squero, ecco la sede storica della Casa del Pescatore, una cooperativa nata nel 1945. All’ultimo piano si trova un’importante raccolta video-fotografica. Penso che il patrimonio di memorie e conoscenze sia ancora vivo e presente in questo quartiere, ma un giorno sparirà: per questo è importante raccogliere testimonianze che raccontano il nostro passato di marinai.
Penso a mio nonno, che è stato uno dei primi “retai”: quando è andato in pensione ha trasformato in un mestiere la riparazione delle reti. Era talmente legato a quel mondo che gli è stato impossibile separarsene.
Chi è andato per mare non riesce a stare lontano dal porto, tutti ci tornano sempre.

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Sessant’anni fa, la maggior parte dei pescatori di Cesenatico viveva qui a ponente, in Via Squero.
Questa era la zona più povera della città, la Valona; le osterie proponevano solo pesce, che all’epoca era considerato cibo povero, mentre nelle trattorie al di là del canale, a levante, si consumavano i prodotti dell’entroterra e i menù erano a base di carne.
Quando ero piccolo, Via Squero assomigliava un po’ ai Quartieri Spagnoli di Napoli; ricordo le scenate, le urla dalle finestre, i bambini che giocavano, il bucato steso ad asciugare al vento. Oggi mi chiedo dove siano i bambini, non ne vedo più. Noi eravamo in venti, anche in trenta, la strada era piena dei nostri giochi e dei nostri schiamazzi.
E poi, alla sera, le donne portavano le loro sedie in strada e chiacchieravano fino a tardi.

Già nel suo nome, Via Squero ci indica la direzione in cui andare: verso il mare.
Incamminiamoci!
Se ora alzate lo sguardo scorgete le bandierine a forma di vela appese ai lampioni.
Su ognuna sono riprodotti i colori e le forme che permettevano di riconoscere il peschereccio, ma soprattutto si leggono i soprannomi delle famiglie di pescatori che possedevano una barca: Gambèla, E Sèndich, Nacc, Bastcianèl… Non conosco l’origine di tutti, ma di alcuni sì: ad esempio Scimiàza, un uomo sempre in vena di fare scherzi a tutti, come una scimmia dispettosa.
Negli anni Sessanta e Settanta la maggior parte dei pescherecci praticava la pesca volante, per la cattura del pesce azzurro. Dalle quattro del mattino la via iniziava a brulicare di vita: i pescatori uscivano dalle loro case già vestiti da mare, alcuni con gli zoccoli, perché gli stivali erano già sulla barca; nei mesi freddi indossavano gli “scarfaròt”, dei calzettoni di lana talmente spessi che ci potevi camminare per terra; tenevano i piedi caldi, ma comodi non erano.

“Vin cun me burdlaz, ch’andèm a fè la spàisa!”, gridava il cuoco al mozzo. Qui, al numero 29 di Via Squero, all’angolo con Via Semprini, c’era una bottega dove si andava a fare scorta di vettovaglie per l’equipaggio. Ogni negozio di generi alimentari aveva un librettino intestato alla barca dove erano segnate meticolosamente le spese, che venivano saldate a fine mese.

Un po’ più avanti, al numero 37, viveva il mio primo comandante, soprannominato “il Generale”: abitando in una casa poco distante dalla mia, sulla via del mare passava sempre da me a controllare che fossi già in piedi. Era un uomo rude, ma del resto tra di noi non c’era bisogno di tante parole: i pescatori hanno un gergo con cui ci si comprende subito.
Poi, nel corso degli anni, il nostro rapporto si è fatto sempre più stretto, i racconti sempre più personali. Le sue storie erano quasi sempre di mare, ti restavano tutte dentro.

Ed eccoci davanti a Via Squero 55: questa è casa mia!
Mio nonno era pescatore, mio padre no: quando mia nonna morì di parto dandolo alla luce, si fece promettere dal marito che non avrebbe lasciato andare il figlio in mare. La richiesta della nonna era comprensibile, perché in quegli anni la vita del pescatore era pericolosa: un tempo si andava solo a vela, e quindi si era alla mercé del vento, nella tempesta come nella bonaccia; poi c’erano le nebbie, le collisioni con le altre imbarcazioni, e dopo il 1945 si aggiunse un’ulteriore minaccia: il mare era pieno di mine disseminate dai tedeschi durante la guerra, e qualcuno ci saltava sopra.
La vita del pescatore era anche magra; si portava a casa giusto il necessario per mangiare, c’era la miseria. La pesca ha iniziato a diventare remunerativa solo agli inizi degli anni Settanta, grazie ai motori sempre più potenti e alle innovazioni nelle tecniche di pesca.
Quello è stato il periodo in cui io e molti miei coetanei abbiamo iniziato ad andare in mare.
La promessa del nonno alla moglie in punto di morte, mio padre me l’ha raccontata che ero già grande.

Quando ero bambino non gli piaceva che andassi a giocare con i figli dei pescatori, forse temeva che prima o poi anch’io, come lui, subissi il fascino di quel mondo, ma mio fratello ed io giocavamo sempre con loro.

Le sortite sui pescherecci, le rincorse tra i magazzini del pesce, i bagni nel canale…
A volte la notte ci svegliavamo e uscivamo di nascosto per andare alla tonnara. Quelle fughe notturne avevano qualcosa di fiabesco, ci stendevamo sulle reti e guardavamo il cielo stellato.
Aver vissuto la mia infanzia in questi luoghi ha sicuramente contribuito a farmi prendere la strada del mare, ma la folgorazione l’ho avuta leggendo “Capitani coraggiosi” di Kipling, e soprattutto guardando il film con Spencer Tracy.

Pochi passi dopo casa mia, a destra, si trovava il piccolo squero.
Dove ora c’è l’acqua, c’era la sabbia per tirare le barchette in secco; più avanti a sinistra c’era il cantiere Marconi, dove si costruivano e riparavano le barche più grandi. Oggi tutti i lavori di cantieraggio si fanno alla darsena, andando oltre Via Squero verso il porto.

All’angolo con lo squero c’era il Bar dei Marinai, con un’ampia tettoia e i tavoli fuori. Quando non si poteva uscire in mare, i pescatori non andavano a casa, venivano qui. Se il tempo era incerto, ai più giovani dicevano “Vai in cuccetta”, un modo per dirti “Tieniti pronto”, ma spesso finivamo per arrivare qui anche noi, ci piaceva ascoltare le discussioni dei pescatori più anziani, ne veniva fuori di ogni: a volte si trattava di precedenze non date in navigazione, o su chi avesse avvistato per primo un branco di pesce, e in alcuni casi nasceva anche qualche baruffa; c’era chi raccontava il suo naufragio, chi uno scherzo fatto a un collega; spesso i comandanti parlavano della pescata del giorno precedente, omettendo naturalmente molti dettagli, per non far sapere dove realmente avessero trovato il pesce.

Accanto a quello che un tempo era il Bar dei Marinai, oggi c’è ancora La Lampara; è stato a lungo il locale più in voga di Cesenatico, apparteneva a uno zio di mio padre e tante volte, quando avevo appena 4 o 5 anni, mi ci hanno fatto cantare, in piedi sui tavoli. Io da piccolo ero timidissimo, ma quando mi esibivo mi trasformavo in un’altra persona. Qui è nato il mio amore per il canto.

E infine, proprio davanti allo squero, ecco la sede storica della Casa del Pescatore, una cooperativa nata nel 1945. All’ultimo piano si trova un’importante raccolta video-fotografica. Penso che il patrimonio di memorie e conoscenze sia ancora vivo e presente in questo quartiere, ma un giorno sparirà: per questo è importante raccogliere testimonianze che raccontano il nostro passato di marinai.
Penso a mio nonno, che è stato uno dei primi “retai”: quando è andato in pensione ha trasformato in un mestiere la riparazione delle reti. Era talmente legato a quel mondo che gli è stato impossibile separarsene.
Chi è andato per mare non riesce a stare lontano dal porto, tutti ci tornano sempre.

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Sessant’anni fa, la maggior parte dei pescatori di Cesenatico viveva qui a ponente, in Via Squero.
Questa era la zona più povera della città, la Valona; le osterie proponevano solo pesce, che all’epoca era considerato cibo povero, mentre nelle trattorie al di là del canale, a levante, si consumavano i prodotti dell’entroterra e i menù erano a base di carne.
Quando ero piccolo, Via Squero assomigliava un po’ ai Quartieri Spagnoli di Napoli; ricordo le scenate, le urla dalle finestre, i bambini che giocavano, il bucato steso ad asciugare al vento. Oggi mi chiedo dove siano i bambini, non ne vedo più. Noi eravamo in venti, anche in trenta, la strada era piena dei nostri giochi e dei nostri schiamazzi.
E poi, alla sera, le donne portavano le loro sedie in strada e chiacchieravano fino a tardi.

Già nel suo nome, Via Squero ci indica la direzione in cui andare: verso il mare.
Incamminiamoci!
Se ora alzate lo sguardo scorgete le bandierine a forma di vela appese ai lampioni.
Su ognuna sono riprodotti i colori e le forme che permettevano di riconoscere il peschereccio, ma soprattutto si leggono i soprannomi delle famiglie di pescatori che possedevano una barca: Gambèla, E Sèndich, Nacc, Bastcianèl… Non conosco l’origine di tutti, ma di alcuni sì: ad esempio Scimiàza, un uomo sempre in vena di fare scherzi a tutti, come una scimmia dispettosa.
Negli anni Sessanta e Settanta la maggior parte dei pescherecci praticava la pesca volante, per la cattura del pesce azzurro. Dalle quattro del mattino la via iniziava a brulicare di vita: i pescatori uscivano dalle loro case già vestiti da mare, alcuni con gli zoccoli, perché gli stivali erano già sulla barca; nei mesi freddi indossavano gli “scarfaròt”, dei calzettoni di lana talmente spessi che ci potevi camminare per terra; tenevano i piedi caldi, ma comodi non erano.

“Vin cun me burdlaz, ch’andèm a fè la spàisa!”, gridava il cuoco al mozzo. Qui, al numero 29 di Via Squero, all’angolo con Via Semprini, c’era una bottega dove si andava a fare scorta di vettovaglie per l’equipaggio. Ogni negozio di generi alimentari aveva un librettino intestato alla barca dove erano segnate meticolosamente le spese, che venivano saldate a fine mese.

Un po’ più avanti, al numero 37, viveva il mio primo comandante, soprannominato “il Generale”: abitando in una casa poco distante dalla mia, sulla via del mare passava sempre da me a controllare che fossi già in piedi. Era un uomo rude, ma del resto tra di noi non c’era bisogno di tante parole: i pescatori hanno un gergo con cui ci si comprende subito.
Poi, nel corso degli anni, il nostro rapporto si è fatto sempre più stretto, i racconti sempre più personali. Le sue storie erano quasi sempre di mare, ti restavano tutte dentro.

Ed eccoci davanti a Via Squero 55: questa è casa mia!
Mio nonno era pescatore, mio padre no: quando mia nonna morì di parto dandolo alla luce, si fece promettere dal marito che non avrebbe lasciato andare il figlio in mare. La richiesta della nonna era comprensibile, perché in quegli anni la vita del pescatore era pericolosa: un tempo si andava solo a vela, e quindi si era alla mercé del vento, nella tempesta come nella bonaccia; poi c’erano le nebbie, le collisioni con le altre imbarcazioni, e dopo il 1945 si aggiunse un’ulteriore minaccia: il mare era pieno di mine disseminate dai tedeschi durante la guerra, e qualcuno ci saltava sopra.
La vita del pescatore era anche magra; si portava a casa giusto il necessario per mangiare, c’era la miseria. La pesca ha iniziato a diventare remunerativa solo agli inizi degli anni Settanta, grazie ai motori sempre più potenti e alle innovazioni nelle tecniche di pesca.
Quello è stato il periodo in cui io e molti miei coetanei abbiamo iniziato ad andare in mare.
La promessa del nonno alla moglie in punto di morte, mio padre me l’ha raccontata che ero già grande.

Quando ero bambino non gli piaceva che andassi a giocare con i figli dei pescatori, forse temeva che prima o poi anch’io, come lui, subissi il fascino di quel mondo, ma mio fratello ed io giocavamo sempre con loro.

Le sortite sui pescherecci, le rincorse tra i magazzini del pesce, i bagni nel canale…
A volte la notte ci svegliavamo e uscivamo di nascosto per andare alla tonnara. Quelle fughe notturne avevano qualcosa di fiabesco, ci stendevamo sulle reti e guardavamo il cielo stellato.
Aver vissuto la mia infanzia in questi luoghi ha sicuramente contribuito a farmi prendere la strada del mare, ma la folgorazione l’ho avuta leggendo “Capitani coraggiosi” di Kipling, e soprattutto guardando il film con Spencer Tracy.

Pochi passi dopo casa mia, a destra, si trovava il piccolo squero.
Dove ora c’è l’acqua, c’era la sabbia per tirare le barchette in secco; più avanti a sinistra c’era il cantiere Marconi, dove si costruivano e riparavano le barche più grandi. Oggi tutti i lavori di cantieraggio si fanno alla darsena, andando oltre Via Squero verso il porto.

All’angolo con lo squero c’era il Bar dei Marinai, con un’ampia tettoia e i tavoli fuori. Quando non si poteva uscire in mare, i pescatori non andavano a casa, venivano qui. Se il tempo era incerto, ai più giovani dicevano “Vai in cuccetta”, un modo per dirti “Tieniti pronto”, ma spesso finivamo per arrivare qui anche noi, ci piaceva ascoltare le discussioni dei pescatori più anziani, ne veniva fuori di ogni: a volte si trattava di precedenze non date in navigazione, o su chi avesse avvistato per primo un branco di pesce, e in alcuni casi nasceva anche qualche baruffa; c’era chi raccontava il suo naufragio, chi uno scherzo fatto a un collega; spesso i comandanti parlavano della pescata del giorno precedente, omettendo naturalmente molti dettagli, per non far sapere dove realmente avessero trovato il pesce.

Accanto a quello che un tempo era il Bar dei Marinai, oggi c’è ancora La Lampara; è stato a lungo il locale più in voga di Cesenatico, apparteneva a uno zio di mio padre e tante volte, quando avevo appena 4 o 5 anni, mi ci hanno fatto cantare, in piedi sui tavoli. Io da piccolo ero timidissimo, ma quando mi esibivo mi trasformavo in un’altra persona. Qui è nato il mio amore per il canto.

E infine, proprio davanti allo squero, ecco la sede storica della Casa del Pescatore, una cooperativa nata nel 1945. All’ultimo piano si trova un’importante raccolta video-fotografica. Penso che il patrimonio di memorie e conoscenze sia ancora vivo e presente in questo quartiere, ma un giorno sparirà: per questo è importante raccogliere testimonianze che raccontano il nostro passato di marinai.
Penso a mio nonno, che è stato uno dei primi “retai”: quando è andato in pensione ha trasformato in un mestiere la riparazione delle reti. Era talmente legato a quel mondo che gli è stato impossibile separarsene.
Chi è andato per mare non riesce a stare lontano dal porto, tutti ci tornano sempre.

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Paolo Polini

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